UN SOGNO DELLO SCRITTORE RENATO PESTRINIERO

Standard

Pestriniero

(Renato Pestriniero)

Pubblico tre contributi dello scrittore veneziano Renato Pestriniero.

1) Un sogno

Essendo risultato ormai inevitabile che le grandi navi debbano essere allontanate dal bacino San Marco, le nostre autorità cittadine si sono recate a Roma per vedere di sistemare la questione presentando ben sette soluzioni alternative per evitare gli attuali passaggi pericolosi.
Quasi contemporaneamente due grandi navi hanno sfiorato la Riva dei Sette Martiri.
Queste coincidenze mi hanno provocato grande angoscia e l’angoscia mi ha proovocato un sogno che definirei piuttosto un incubo.
Eccolo.

* Vista l’impossibilità di mantenere la tesi della sicurezza, per non perdere la faccia e quant’altro sette progettisti di rotte alternative decisero di non farsi la guerra e approfittare del momento: accettare quindi la soluzione che sarebbe stata scelta dal governo centrale, massimo organo competente per rotte lagunari e qualsiasi altro problema veneziano, e poi spartire quanto sarebbe stato realizzato in sette parti uguali da buoni fratelli.

* Per dare impulso definitivo al progetto bisognava però creare una situazione-limite che provocasse grande rumore e fosse divulgata dai media di tutto il mondo.

* Un altro caso Isola del Giglio non sarebbe stato auspicabile, però un accadimento che lo facesse ricordare poteva essere la soluzione giusta.

* C’era forse qualche abile capitano in grado di prestarsi? Possibile ma costava. E se la cifra fosse stata divisa per sette? OK e ne avanzava. D’altra parte, fare squadra è l’unica soluzione per arrivare al risultato, lo dicono tutti e di qualsiasi ideologia politica, solo così si può andare avanti, basta con le contrapposizioni che portano all’immobilismo, soprattutto quando è in gioco l’esistenza della più bella città del mondo!

* Purtroppo il capitano selezionato era un tipo che parlava troppo e la cosa venne alle orecchie di un suo collega che disse: e perché io no? No, tu no! Disse il primo capitano, l’inchino a Venezia lo faccio io. Ma il collega ribatté: per arrivare a un risultato dobbiamo fare squadra. L’altro non rispose.

* L’inchino venne fatto in fretta e furia e tutti i media del mondo ne parlarono. Ormai era deciso, le grandi navi dovevano cambiare rotta, e il brindisi dal ponte più alto con vista San Marco sarebbe stato fatto un po’ più in là.

* Ma il collega non perse tempo e appena in vista della Piazza… zacchete! Anche lui s’inchinò a Venezia raschiando le barbe di alghe che ornano la Riva dei Sette Martiri.

A questo punto mi sono svegliato. Per fortuna era solo un sogno poiché vicende di questo genere non possono rientrare nella realtà. Infatti la dimensione onirica è il regno dell’impossibile.
Adesso sono rientrato anch’io nella normalità e mi sento del tutto tranquillo.

Renato Pestriniero

2) QUELLI DEI QUADRI

(questo racconto fu scrtitto nel 1971. Fu pubblicato 13 volte in Italia, Francia, Bulgaria, Stati Uniti d’America,, Germania)

Il suono si fece strada faticosamente nelle vischiosità del sonno. Enrico cominciò a svegliarsi. Con il secondo piagnisteo della sirena si svegliò del tutto ed entrò nel significato di quel suono. Capitava solo una o due volte all’anno ma era una seccatura.
Bassa marea.
Aperte le imposte, girò lo sguardo sul paesaggio ritagliato in un fondale grigioperla. Il cielo era basso, tagliuzzato dai fili della luce. A pochi centimetri sopra la sua testa il tetto dell’abbaino incorniciava ad angolo la visuale. A lui piaceva, quel tetto così basso gli dava un senso di intimità, di calore, come un cappello nelle giornate d’inverno fredde e bagnate.
Si soffermò ancora per qualche attimo, stretto nella coperta, a sbadigliare ai tenui colori di quel nuovo giorno. La nebbia stava invadendo ogni spazio. Avanzava a sbuffi morbidi, si ingolfava lungo il Canal Grande e il Canale della Giudecca stemperandosi nell’intreccio di calli e canali, filtrava nelle corti strette intorno ai pozzi slabbrati, dentro vecchie porte socchiuse ormai inutili. La città quella mattina appariva come una tavolozza lavata. L’unica macchia decisa, non ancora spenta dalla nebbia, era il rossobruno dei tetti al di là del canale, tutto il resto era un sipario dilavato di grigi che si sovrapponevano l’uno sull’altro tagliati dalle anacronistiche arrugginite antenne TV.
Al di là del sipario il campanile di Santa Maria Formosa batté sei colpi, unico segno di vita dalla città. I rumori sarebbero cominciati verso le otto e mezzo con il Quadro di Francis. Prima di quell’ora ci sarebbe stato solo il rombo del charter delle sette e cinque, sempre che il vento soffiasse dalla parte sbagliata.
Con i charter arrivavano i visitatori dei Quadri. Per quanto lo riguardava potevano andare tutti a farsi fottere, con le loro olocamere e le loro esclamazioni standardizzate e i loro abiti carnevaleschi e soprattutto la loro ben levigata ignoranza.
Rientrò. La doccia, le istruzioni sulla lavagna, il costume del mercoledì, la luce, il rubinetto dell’acqua. Scese i quattro piani di scale strette e attorcigliate, gli scalini arrotondati dai secoli, l’intonaco lebbroso, l’aria di muffa. Fu nella calle. Proprio in quel momento, contrariamente a quanto aveva sperato, il charter fece udire il suo sibilo e tutta la città ne fu piena.
Enrico percorse correndo il tratto che lo separava dalla Mensa Protagonisti. Qualcuno era già arrivato, altri entrarono poco dopo. Saluti, frizzi, sbadigli, imprecazioni. Infilò la scheda nella fessura della macchina e ritirò la colazione dalla bocca sdentata illuminata sussurrante. Sedette al suo tavolo preferito.
Tutti i tavoli erano uguali ma da quell’angolo poteva guardare attraverso una finestra che era molto più di una semplice finestra, era annullamento del tempo, realtà ma anche interpretazione artistica; uno squarcio di città rimasto intatto usciva dal buio e si presentava ai suoi occhi in un’atmosfera ogni volta diversa a seconda della luce del sole, delle frange di pioggia, delle volute di nebbia. D’accordo, mancava la gente, adesso non c’era più nessuno in città. C’erano solo loro, quelli dei Quadri. E la morte della città aveva fatto rinascere una miseria antica, l’odore di legno putrido.
«Avanti, ragazzi, sono le sette e mezzo.» Dario era un uomo sui cinquanta, corpo massiccio costretto nella tuta rossa degli Artisti, testa rapata ma barba rigogliosa. Raccolse intorno a sè il gruppo di giovani che nel frattempo si erano radunati nella Mensa.
«Allora vediamo se ci siamo tutti. Roberto, Juan, Helen, Greta, David, Ennio… dov’è Ennio, qualcuno lo sa?» Nessuno lo sapeva.
«Ancora cinque minuti,» concluse Dario, «Poi lo sostituiremo. Le comparse saranno qui alla solita ora.»
Poco dopo la porta si aprì ed entrò Alex. Era un Indipendente e non partecipava ufficialmente ai Quadri, ma in pratica viveva nell’ambiente degli Artisti rimediando qua e là l’indispensabile per tirare avanti. Il fascino del ragazzo era dovuto soprattutto alle parole che diceva, parole che avevano la facoltà di rimanere sospese al di fuori delle risate e dei frizzi e di quanto veniva detto nel gruppo. Solo dopo ci si accorgeva che di tutto quanto era stato fatto e detto durante il giorno, l’unica cosa rimasta accovacciata in un angolino della mente era un abbozzo di idea, un fantasma di pensiero che, se analizzato, rappresentrava l’essenza delle parole di Alex. In qualsiasi altra città sarebbe stato un leader dalle idee rivoluzionarie, tutto teso a distruggere per rifare, ma in una città come quella, fatta di cose morte, silenzi, sciacquii e nebbie, solo quelli dei Quadri potevano ascoltare le sue parole, e l’ambiguità della sua posizione dipendeva dal fatto che ben pochi le condividevano
Lo sguardo di Alex si fermò su Dario, «Prendo io il posto di Ennio. Lui non viene.»
Dario non rispose ma due rughe verticali gli si formarono in mezzo alla fronte. Guardò l’orologio. I cinque minuti erano trascorsi, «Va bene,» disse, «Prendi il costume del mercoledì, Quadro Sei.»
La tensione che si era creata tra i due era palpabile. Alex si avviò al guardaroba. Passando vicino a Enrico gli posò una mano sulla spalla, ammiccando.
Alle otto in punto la squadra al completo e in costume usciva dalla Mensa diradandosi subito nell’intrico delle calli, ognuno diretto al proprio posto di lavoro.
Quella mattina la sirena aveva dato avviso di bassa marea. L’acqua della laguna avrebbe quindi lasciato parecchie strade scoperte ma nessuno avrebbe approfittato di quell’occasione per camminare lungo calli e fondamente, tutti si sarebbero serviti come al solito dei passaggi infissi sui muri a un metro e mezzo dal piano stradale lungo i pochi itinerari obbligati. La bassa marea era un fenomeno rarissimo ed era un vero disgusto. Nei tratti lasciati scoperti dall’acqua che si ritirava, il selciato mostrava il suo volto vecchio di secoli incrostato di melma putrida, un magma di rifiuti, un cimitero scoperto di topi.
Il vociare dei ragazzi si spense in lontananza. La Mensa rimase un punto di luce sussurrante nella nebbia. Un filo di musica filtrava attraverso la porta e subito veniva assorbito dal grigio. Dall’interno, lo scorcio della città rimasta come un tempo non si vedeva più.

***

La vettura parte veloce e silenziosa dal campo dei charter poggiando la sua eleganza su un nulla frusciante. Attraverso le curve pareti di plastica la città dei sogni con le torri e gli archi sull’acqua non si vede ancora, avvolta com’è in un bozzolo di nebbia che in realtà è un sudario. Poi un grido esce improvviso da duecento gole seguìto da duecento esclamazioni di sorpresa quando la vettura si inabissa con calcolata estemporaneità nelle acque della laguna. Ronzii di apparati di registrazione, clicchettii di macchine fotografiche, fruscii di olocamere, occhi lucidi sugli indicatori luminosi, sui display elettronici. Le prime rovine della zona sommersa cominciano a prendere forma attraverso gli strati opachi dell’acqua, si avvicinano e sfrecciano all’indietro in un susseguirsi di bocche spalancate in un lungo urlo silenzioso. I duecento esseri umani al servizio dei piccoli robot girano la testa da una parte all’altra lasciando alle loro protesi ammiccanti il compito di osservare, registrare, procurare prove che stanno veramente entrando nella città delle fate.
Ed ecco le possenti strutture che la True Venice Sightseeing Co. Inc. ha costruito per sorreggere la zona emersa di sua proprietà e procurare agli affezionati clienti il brivido previsto, poiché “Solo le immagini delle vostre registrazioni potranno convincervi che tutto questo è realtà”.
Un gigantesco arcobaleno di neon ingoia la vettura al suo emergere all’interno del terminal mentre centinaia di palloncini di plastica lampeggiano un infaticabile WELCOME. Il gruppo si unisce compatto e vociante ad altri gruppi vocianti in attesa sulla piattaforma, quindi la strada mobile comincia a spostare verso la città una processione traballante di vecchissimi bimbi. Tre ore. Tre intere ore di permanenza nel regno delle fate, nel dominio del grande silenzio (ma riusciremo veramente a resistere al silenzio tutto questo tempo?) dove dicono si senta persino il fruscio dell’acqua che accarezza i fianchi dei palazzi, e poi… e poi I QUADRI!
Il sole comincia a far brillare la nebbia, ed è proprio come dice il dépliant della True Venice, la città è “immersa in un alone di luce dorata”. Attenzione al display, facciamo la panoramica della luce dorata che, sorry, dell’alone di luce dorata che avvolge la città, una zoomata su quel pezzo di colonna che sembra messo lì apposta… ma i Quadri dove sono, perché non cominciamo subito? Ebbene, signori, una gradita sorpresa per voi. Siamo lieti di annunciare che oggi potremo assistere a tre Quadri anziché due come previsto dal programma… ooohhh!… in considerazione del fatto… parlottare e gridolini… quale omaggio della True Venice… schioppettare di mani allegre come farfalle. Potete vedere ora nell’angolo destro tra una selva di pali conficcati nel fondo una gondola che sta attraversando il canale attenzione a non oltrepassare la linea gialla segnata a terra. Se richiesto faremo fermare la gondola a metà sequenza del Quadro… d’accordo, signori, la vostra sensibilità artistica è evidente ed era stata prevista. La gondola si fermerà. Come potete osservare l’imbarcazione trasporta gente vera e non occorre che sottolinei la drammaticità di questo Quadro, basta una manovra sbagliata, un’onda improvvisa, il semplice spostamento di un passeggero perché l’imbarcazione si capovolga, e tutto questo PUO’ SUCCEDERE ORA D-I-N-A-N-Z-I A-I V-O-S-T-R-I O-C-C-H-I ! Ancora pochi metri e la gondola si fermerà per farsi giustamente ammirare da tutti voi. Ma c’è qualcosa che… il gondoliere si affretta anziché fermarsi… sta sopraggiungendo una delle navi che fanno servizio di trasporto sul Canale Lungo e questo significa onde pericolose per la piccola fragile gondola e il suo carico di esseri umani, ci sono donne, vedo anche un paio di bambini! Potete vedere anche voi come il gondoliere tenti di allontanarsi spingendo sul remo con tutte le sue forze…è una manovra molto difficile! La prora della nave ormai incombe… nasconde la gondola ai nostri occhi!
La folla soffoca, bocche coperte da mani pallide, occhi che finalmente vedono.
Ma ecco, signori, che il pericolo è passato e il nostro gondoliere è ben saldo sulla sua barca e sta manovrando per frenare. Un bel Quadro veramente, signori, siete stati fortunati, un’occasione che difficilmente si ripeterà. E ora un applauso per questi magnifici interpreti. Vi ricordo che la linea dei prodotti True Venice comprende anche la serie completa dei Quadri ed è disponibile presso i punti vendita autorizzati, ma attenzione, controllate che il marchio sia quello originale della True Venice!

***

Enrico e Alex tornavano alla Mensa Protagonisti camminando lungo le strette tavole. Nessuno dei due parlava, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni neri. Enrico guardava Alex che lo precedeva di qualche passo, maglietta a strisce orizzontali bianche e blu, casacca buttata sulla spalla, solino, cappello di paglia con nastro rosso. La loro divisa. Mentre attraversavano campo San Vidal sentirono il vaporetto del Quadro Nove che si avvicinava. Dall’alto del ponte dell’Accademia lo videro prendere forma nella nebbia che sfiorava l’acqua del Canal Grande. Doveva esserci Williams al comando. E infatti i due ragazzi videro la sua mano agitarsi in segno di saluto. Enrico e Alex rimasero sul ponte fino a quando il vaporetto con il suo carico di comparse multicolori si fece sfocato, perse consistenza e si dissolse nella nebbia. Enrico fece per proseguire ma Alex rimase con le braccia appoggiate sul parapetto del ponte.
«Andiamo, si fa tardi,» Enrico si incamminò.
«Di’ un po’, ci hai pensato?»
Enrico sapeva cosa significava quella domanda ma non si sentiva ancora in grado di rispondere, «Adesso andiamo, ne riparleremo.»
«No. Parliamone ora, non possiamo più aspettare. Possibile che tu non riesca a vedere l’assurdità di tutto questo? È grottesco, immorale!»
Enrico si era fermato, «Potrei anche essere d’accordo con te, solo che… insomma, tu hai la possibilità di mantenerti indipendente pur rimanendo nell’ambito degli Artisti. Io, se mi metto contro, che faccio? L’ideale, d’accordo, lo scopo dell’arte eccetera, d’accordo, ma io voglio rimanere qui, in qualsiasi altra città non riuscirei a vivere. Se mi metto dall’altra parte della barricata il mio posto verrebbe subito preso da un altro. Ennio e Dario aspettano proprio questo per mettere altri dei loro.»
«Di Ennio non devi preoccuparti più.»
«Che vuoi dire? Ennio non si è fatto vedere oggi e guarda caso c’eri tu a sostituirlo.»
Carlo scrollò le spalle, «Sono un Indipendente, sostituisco chiunque manchi.»
Alberto lo affrontò, «Parliamoci chiaro, io non voglio sapere perché quel figlio di puttana non è venuto, per quanto mi riguarda può andare a farsi fottere, però non è con le nostre idee che possiamo mettere fine a questo merdaio.»
L’acqua che passava sotto il ponte dell’Accademia era sporca, scura, oleosa. Nel suo lento fluire trasportava i rifiuti che le comitive di turisti gettavano durante i loro tour, involucri multicolori di razioni alimentari, assorbenti, scatole vuote di film, bottiglie di plastica, preservativi, frammenti di mondi lontani con scritte incomprensibili. La città era morta ormai da anni, trasformata in un cimitero di fantasmi. E chi manteneva nella memoria collettiva la città delle fate erano loro, quelli dei Quadri, protagonisti delle scene destinate a chi poteva pagarsi il viaggio da ogni angolo della Terra. Ovviamente era necessaria la tessera di appartenenza, l’iscrizione al sindacato, l’obbligo di parlare e muoversi e vestirsi come imposto dagli sponsor, gli schemi dei Quadri dovevano ripetersi perfettamente anche nei minimi dettagli, sempre.
Enrico guardava l’acqua lurida che passava sotto il ponte, «Prova a guardare la faccenda in un’ottica diversa. Forse anche il lavoro che facciamo come anonimi stipendiati della True Venice, come marionette mosse dai Creatori di Quadri può definirsi movimento artistico. La pittura continua a interpretare la realtà con mezzi sempre nuovi, perché allora non possiamo considerare queste rappresentazioni come quadri? Il concetto di quadro è passato dalla roccia dipinta all’ambiente chiuso dell’atelier, all’impressione en plein air, all’uso di materiali che non hanno niente a che fare con colori e pennelli, quadri trasformati in sculture, in creazioni estemporanee, happening, performance, in multipli… ecco, noi siamo dei multipli viventi e abbiamo fatto una scelta perché amiamo questa città-simbolo, non vogliamo che essa, anche se morta, imputridisca.»
Il ragazzo rimase a lungo in silenzio, poi soggiunse con voce stranamente incolore: «Però, malgrado tutto, sento che hai ragione.»
«Riesci a capire adesso?» Alex parlava guardando il sipario grigio che copriva la Salute, «Le nostre sceneggiate sono un affronto all’anima di questa città, non facciamo che imbellettare il cadavere, gli mettiamo dentro una molla e lo facciamo ridere e saltare ogni giorno per tutti gli stronzi che vengono qui a onorare l’obbligo del turismo intelligente, fottuti individui carichi di soldi che si sentono perduti se non hanno le loro stramaledette telecamere appiccicate agli occhi poiché ormai sono quelle i loro occhi, è la macchina che guarda e dà loro la certezza di essere stati veramente qui,» sputò nel canale. Poi sputò ancora con rabbia maggiore, «Siamo venuti da ogni parte del mondo per ridare vita a questa città-idea però non possiamo farlo sulla base di contratti commerciali a scadenza semestrale, con azioni impastoiate dai sindacati. Questa città-idea dobbiamo farla veramente nostra vivendola, e chi vuole vederci venga pure, con o senza olocamera, ma se vogliono vedere veri Quadri devono girare per le strade o sopra tavole di legno o affondando i piedi nella merda. Questa città deve ridiventare la vera matrice delle nostre opere, aperta a chiunque purché parli lo stesso linguaggio culturale. Non c’è posto per tutti. Questo è un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, appartenente a un’altra dimensione, ed esiste solo per chi può capirlo. Qui si lavora con bacchetta magica e con cappello a cono, non con computer e filosofie high-tech.»
Il Quadro Tre cominciò a farsi sentire come un monotono brusio punteggiato di alti scoppi di invettive. Le due donne erano affacciate alle rispettive finestre, l’una di fronte all’altra ai due lati della calle, e con i pugni appoggiati sui fianchi mettevano in scena la baruffa quotidiana del tutto incomprensibile ai turisti ammassati sulla piattaforma di plastica bordata di giallo. Tra qualche minuto ci sarebbero stati gli immancabili applausi.
Enrico e Alex guardavano la nebbia che galleggiava sull’acqua.
Alto sopra la coltre di grigio, lamentoso e poi stridente, filtrò l’urlo di un charter in partenza con il suo carico policromo di umanità soddisfatta per aver visitato la città delle fate rigorosamente live. La prova era avvolta nella scatola di plastica rossogialla pronta per essere esibita agli amici rimasti a casa. La città delle fate non c’è più. Forse è sotto quel velo grigio che la TV a circuito chiuso sta trasmettendo… ma ora basta, vediamo cosa prevede il programma, vediamo qual è la prossima tappa!
I due ragazzi scesero dal ponte dell’Accademia e si diressero verso Corte dell’Albero. Attraversarono il piccolo campo con la fontana ormai muta da anni, si inoltrarono nel grumo delle calli. Ai lati si alzavano pareti che erano ossari.
Il rumore dei loro passi risuonava sulle tavole di legno alte sopra le strade di fango.

Renato Pestriniero

Inchino

(Venezia, 27 luglio 2013. La Carnival Sunshine sfiora San Marco. Ecco l”inchino’ pericoloso della nave da crociera)

3) Dal Gazzettino del 25 luglio 2013

La capacità di vergognarsi

Due casi emblematici presi nel mucchio: a San Giacomo viene vietata la tipica festa veneziana organizzata dalla Benefica e, sempre a San Giacomo (ma anche alla vicina chiesa degli Scalzi) cadono pezzi di strutture marmoree. La Soprintendenza si sveglia all’improvviso e vede che la manifestazione benefica non s’ha da fare, e la giustificazione è ancora più sorprendente della decisione: i fumi delle griglie rovinano il muro della chiesa.
Ma forse la Soprintendenza non si è svegliata del tutto perché non si è accorta che Venezia sta cadendo letteralmente a pezzi per una somma di cause che, chi la vive, conosce benissimo in quanto le vede e le subisce giorno dopo giorno.
Mi chiedo come possano essere ammissibili certe giustificazioni. Non sarebbe meglio il silenzio e limitarsi, se possibile, alla vergogna? Poche ore di fumo prodotto da costicine e salsicce rovinano le strutture murarie e va bene tutto quello che succede da decenni e ha ridotto la città all’immondezzaio e alla rovina che stanno sotto gli occhi di (quasi) tutti? Quand’è che un minimo di pudore permetterà a certi amministratori di starsene almeno zitti? Quand’è che qualcuno di loro avrà il coraggio di camuffarsi, uscire dal Palazzo e mescolarsi a chi vive la città per rendersi conto di come si è costretti a viaggiare, o anche sperimentare sulla propria pelle cosa dovrà sopportare chi deve raggiungere l’ospedale all’Angelo in caso di necessità, o come difendersi dalle bande armate di borse false e rose ma anche di coltelli, dai kapò dell’elemosina organizzata che hanno ridotto la città a una corte dei miracoli, dai pezzi di pietra che cadono dalle case…
E soprattutto quand’è che la smetteranno di preoccuparsi per problemi come il fumo di un barbecue di beneficenza?

Renato Pestriniero

Una risposta »

Lascia un commento